sabato 24 settembre 2011

R.E.M. call it quits: dedicato a tutti gli orfani

“If the end comes faster than we had expected”: in fondo, nell’ultimo album, lo avevano annunciato a più riprese, il loro scioglimento, i R.E.M. “Se la fine arriva più veloce di quanto ci aspettassimo” canta alla sua maniera metà sibillina e metà nostalgica Michael Stipe in “Mine smell like honey”. E’ il momento in cui sembrano esplicitare in maniera più chiara il passo che poi hanno deciso di fare, loro che della non chiarezza e dei significati impliciti dei testi hanno fatto un’arte.

I REM sono finiti e suona doloroso, nostalgico e destabilizzante anche solo pensarlo. Qualcosa che era nel paesaggio musicale da sempre, per quelli della mia generazione. Di più: qualcosa di cui potevi dire “beh, sarà anche un periodo di merda, ma posso sempre mettere un disco dei REM”. Erano un gruppo che ti salvava la vita. Con un amico con il quale ho condiviso molte passioni musicali dell’adolescenza eravamo soliti dire a mò di battuta: “devo ritrovare un po’ di equilibrio, ascolterò un paio di dischi dei REM”. Erano coloro che ti elevavano senza fartela pesare, questa cosa che loro erano capaci di elevare il tuo spirito.
Una volta, con una logica ed una sincerità quasi matematica e brutale nella sua esattezza, Michael Stipe ha dichiarato: “sono le canzoni tristi ad aiutarti nei momenti difficili. Sono le canzoni tristi che hanno questo straordinario potere di darti felicità”. Ecco, solo per una frase così, quell’uomo pelato meriterebbe l’istituzione e la successiva consegna di un Nobel alla carriera.
Ed erano proprio le loro canzoni più tristi, o quelle più nostalgiche, che avevano il potere di salvarti le chiappe quando ti sentivi proprio giù. Nelle ore successive alla notizia dello scioglimento della band ho anch’io, come centinaia di migliaia o forse milioni di persone nel mondo, postato sulla mia bacheca di Facebook un loro pezzo. Quello che ho scelto io è “Nightswimming”. Perché sono due le cose che continuano a tornarmi in mente in questi giorni. Una è un verso di quella splendida e struggente canzone: “these thing they go away, replaced by everyday”. Queste cose ci lasciano, rimpiazzate dalla quotidianità.
È un verso di struggente nostalgia, ma ora assume anche i contorni di una brutale coltellata, un monito. Un monito per tutte le cose belle che hai lasciato soffocare dalla quotidianità. E la seconda cosa che mi torna in mente è un particolare generale (chissà se ha un senso, come ossimoro) della musica dei Rem: i cori. Cioè come la voce di Mike Mills (e finché c'è stato, anche quella di Bill Berry) si incrociava armonicamente a quella di Michael Stipe. In particolare  mi torna in mente “Fall on me”, quell’intreccio armonico perfetto che ti portava in paradiso. 


Ecco, la cosa strana che succedeva ogni volta che ascoltavo un disco dei REM, anche uno di quelli meno riusciti: c’era un momento che arrivava all’improvviso in cui un semplice bridge, un coro, un’uscita da un ritornello ti raccontavano qualcosa della vita che era impossibile esprimere in altro modo. Di più: ti raccontavano qualcosa della tua vita, senza neanche conoscerti. Pensateci: era difficile definire un fan dei REM, se non dicendo che era un fan dei REM. Un gruppo che prima di definire sé stesso, definiva te.
Questo e un milione di altre cose li rendevano unici. Ed anche nel modo scelto per andarsene, c’è dell’unicità vera: in quel “thanks for listening” che porta implicito in sé una grande umiltà ma anche una specie di memento che la vita e la musica non sono consumo, ma ascolto. La band di Athens è sempre stata un gruppo da ascoltare, non da consumare.  C’è anche una terza cosa che mi torna in mente: l’inquadratura iniziale di Stipe nel video di “Waht’s the frequency Kenneth?”. Dio, quanto ho desiderato quella maglietta che indossava lui. Thanks for playing, R.E.M.

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