mercoledì 14 dicembre 2011

La Partita Perfetta- Seconda Parte

Sei mesi dopo, a mente fredda e su gentile richiesta, torno a quella che il 3 giugno scorso battezzai La Partita Perfetta. Gianluca Comuniello


Mi è stato chiesto, peraltro giustamente, dove fosse mai finita la seconda parte del mio pezzo sulla semifinale del Roland Garros fra Federer e Djokovic. Sono talmente “spallinato” che la prima volta che mi è stata posta questa domanda mi sono chiesto “quale seconda parte?”. Poi, andandomi a rileggere il pezzo, ho visto che nel titolo avevo effettivamente messo “prima parte”. E se metti prima parte in un titolo devi oggettivamente convenire che è giusto che chi leggi si aspetti quanto meno una seconda parte.
Sono quindi passato anch’io a chiedermi quale fosse questa seconda parte. Anzi, ho fatto di più: mi sono chiesto cosa mi avesse portato a dire che quella era solo una prima parte, visto che si concludeva, perdonate il bisticcio di parole, in maniera perfettamente conclusiva, con quel riferimento a Mohammed Alì. Sono riandato con il cervello a quella sera, in cui ubriaco di tennis battevo furiosamente sulla tastiera nella sala stampa del Roland Garros. Avevo tante cose dentro: amore per questo sport, rappresentato in maniera plastica e quasi leggendaria dalla prestazione di Federer quel giorno e dalla degna sfida offertagli da “mi sono dimenticato come si fa a perdere” Djokovic. Amore per quella città, che si era riunita in un abbraccio intorno a quel miracolo di tennis, scadendo con la sua r moscia (è spettacolare, la r moscia pronunciata da una folla di più di diecimila persone). Amore, anche, per un percorso personale che sentivo quella sera si stava chiudendo su una “high note”.
Ecco, tutto questo AMMMORE era talmente “inviscerato” dentro di me che sentivo che un solo pezzo non sarebbe bastato. Solo che non sapevo quando avrei scritto il secondo e soprattutto di cosa avrebbe parlato, visto che il primo chiudeva la descrizione della partita in sé. Ora, anche spinto dalle richieste di lettori che sono arrivate di tanto in tanto, l’ho capito. La seconda parte deve parlare del momento in cui il movimento si fa poesia. Del perché, a distanza di mesi, a parte l’ormai famoso “rovescio che non ha senso”, ho ancora ben stampata in testa l’immagine di quella pallina che vola a non più di due dita sopra la rete da una parte all’altra del campo, con traiettorie che sembrano via via più definitive, solo per scoprire di non esserlo, definitive, perché quello dall’altra parte della rete non è disposto a cedere di un millimetro.
Ricordo che Nadal si risentì quasi quando, il giorno dopo, accostarono questa partita a quella del 2008 fra lui e Federer a Wimbledon. Rispose, peraltro legittimamente, che quella era un’altra storia, che quella del 2008 era una finale ed in ballo c’era il numero 1 del mondo. Che è sacrosanta verità, ma stona ideologicamente dentro ad un personaggio costruito almeno mediaticamente proprio sull’opposto della logica dei numeri. Per anni ci hanno ammorbato con questa dicotomia posticcia: Federer l’uomo che raccoglie record Vs. Nadal l’uomo che trasmette passione. Che come tutte le dicotomie mediatiche tende ad essere una solenne puttanata. E Nadal stesso lo dimostrò nel momento in cui messo di fronte ad un comparazione passionale offrì una risposta basata sulla logica matematica. Ma questi, mi rendo conto, sono ragionamenti del poi, a mente fredda, che esulano dal discorso centrale del momento in cui il movimento decide di diventare poesia suggerito dalla semifinale parigina. DFW, dal posto in cui si trova adesso, avrà guardato quella partita godendo e trovando conferma alle teorie espresse in “Federer as a Religious experience”. Mi sono chiesto cosa altro, nel mondo dello sport o in altri mondi mi abbia dato la stessa sensazione di circolarità perfetta. Di perfetta trasposizione in pratica di ciò che riesci solamente a teorizzare, il più delle volte. Non ho trovato molti esempi. Fossero molti, probabilmente, non sarebbero sensazioni così forti. Non tutti sono momenti sportivi. Butto giù quelli che mi sono venuti in mente, avvertendo che riguardano solo avvenimenti di cui ho potuto avere esperienza diretta… non nel senso che ero lì quando sono successi (la semi parigina rimane infatti l’unico esempio personale di una tale sfacciata fortuna), ma nel senso che ero in un’età “abbastanza” adulta da apprezzarli:
  • Il minuto finale della seconda carriera di Michael Jordan, a Salt Lake City, nel 1998.
  • Il cucchiaio di Totti in Italia-Olanda, nel 2000.
  • I Rem che dopo aver dato al mondo “Out of Time” non vanno in tour, si chiudono in studio e ci regalano “Automatic for the people”.
  • Cobain che, già ormai totalmente incasinato con sé stesso, suona e canta quella versione di “Where did you sleep last night?”.
  • DFW che dopo aver scritto Infinite Jest riesce ad estrarre ancora perle come “Incarnazioni di Bambini Bruciati”.
  • Barack Obama che partendo da Spingfield, Illinois, arriva a Washington nel novembre 2008 a far urlare ad una folla “Yes, we can” (e quanto gliela stanno facendo pagare, accidenti).
Ecco, sono sei momenti. Come i game che ci vogliono per vincere un set. Oddio, se si va al tie-break, ne servirebbe un settimo. Già, il settimo ce l’abbiamo già. Ace.

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