lunedì 24 gennaio 2011

E leggetelo su: “The Jordan Rules”- Come Michael Jordan imparò a vincere nonostante sé stesso

Dopo l'ottimo articolo di Karim Nafea su Steve Nash e le trade complicate dell'NBA attuale, torniamo ad occuparci di basket americano con un mio modesto consiglio di lettura utile a capire uno degli incontri più affascinanti e vincenti della storia dello sport moderno: quello fra Phil Jackson e Michael Jordan. Gianluca Comuniello




Si intitola “The Jordan Rules” ed è stato scritto da Sam Smith nel 1991. Sam Smith, all'epoca, era un giornalista sportivo con il compito di seguire i Chicago Bulls per il “Chicago Tribune”....

 Il libro è uscito in una sua prima edizione negli Stati Uniti nell'autunno 1991, pochi mesi dopo la conquista del primo anello da parte di Jordan e dei “Jordaniani”. Ha avuto poi, nel corso dei due anni successivi, delle piccole aggiunte in coda ed in testa, per diventare il libro che potete trovare nelle librerie americane o ordinare comodamente su internet ad un prezzo veramente modico (più o meno sette dollari). Questa asettica elencazione iniziale di fatti mi serve per dare il quadro del momento di nascita del libro perchè, a suo modo, è un documento storico. E' forse infatti il primo tentativo (altri ne seguiranno) di togliere dalla testa degli appassionati di tutto il mondo l'immagine di Michael Jordan come “l'affascinante sorriso di Madison Avenue che tutti vorrebbero essere” e di raccontare l'uomo che stava dietro quell'immagine.
Per me, la riscoperta di questo testo è stata una piacevole sorpresa. Appartengo ad una generazione che ha fatto in tempo a vedere molto Jordan, ma a vederne solo il lato A, quello di successo: i tre anelli, il Dream Team, il prematuro ritiro, il misero tentativo di giocare a baseball, il ritorno, i successivi tre anelli, il nuovo ritiro, la coda di carriera con i Washington Wizards. Che è molto Jordan, a pensarci. Ma è solo la parte agiografica dello stesso. E allora, nell'anno in cui Lebron James ha deciso che non voleva più pazientare molto per prendersi l'anello e si è spostato a Miami per accelerare la pratica (subendo le critiche dello stesso Jordan, critiche del tipo: “non ha avuto la pazienza di costruirsi il titolo attorno, è dovuto emigrare”) mi sono chiesto come il più grande cestista di tutti i tempi abbia sopportato sette lunghi anni senza titolo. Con titoli personali, certo (1 MVP, titoli marcatori a pioggia, un titolo di Best Dunkers all'All Star Game) ma senza riuscire ad arpionare il Santo Graal. Che mentre lui diventava il miglior giocatore di sempre, era sempre una questione che veniva spartita fra altri grandi: Larry Bird, Magic Johnson, Isiah Thomas. Come ha sopportato Jordan una traversata nel deserto lunga sette anni? Il libro risponde chiaramente: molto male. Ed entra tra le pieghe del mito Jordan per farne vedere i difetti. Per far capire com'è complicato, in uno sport di squadra, riuscire a relazionarsi con il Più Grande di Tutti. Il libro prende il titolo da uno schema adottato dai Detroit Pistons sul finire degli anni Ottanta, definito appunto Jordan Rules: la difesa dei Pistons faceva in modo di “collassare” su Jordan, sicura del fatto che, nel momento caldo della partita, MJ non avrebbe mai e poi mai mollato la palla ad un compagno, preferendo farsi carico dei tiri decisivi anche se si trovava in una giungla. Questa scelta tattica, molto ben strombazzata a livello mediatico dai Bad Boys di Detroit (in America lo sai, il marketing viene fuori anche dalla doccia) consegnò per due anni consecutivi ai Pistons la sfida di playoff contro i Bulls, ma serve anche come metafora di tutte le “Jordan Rules” che regolavano il mondo di Chicago. Rules che avevano arrostito fior di allenatori e che rischiavano di portare all'esaurimento nervoso molti compagni di squadra. Perché MJ sapeva benissimo di essere “un maiale più uguale degli altri”. Aveva un ego grande come i campi di grano dell'Illinois e sul campo di basket questo tendeva ad occupare un po' troppo spazio.
“Il più grande atleta mai esistito, ma dubito che capirà mai come si gioca in una squadra di basket” dice un compagno ad un certo punto. Il libro fornisce un fantastico “Behind the Scene” di quel primo anello, che fu figlio più di litigi e tensioni che di armonia e forza del gruppo. E se su un covo di vipere di tali dimensioni si è riuscito a costruire la saga più vincente della storia dello sport, lo si deve forse ad una persona sola: Phil Jackson. Dipinto come un'ex figlio dei fiori un po' naif e molto pacifista, PJ riesce a trasformarsi da subito in generale abile a giocare con la psicologia dei giocatori, a portar loro un libro “The triple post offense” di Tex Winter, scritto ben trent'anni prima e a convincere due tipi dall'ego ingombrante come MJ e Scottie Pippen a piegarsi, almeno ogni tanto, ai dettami tattici lì teorizzati. E' così che alla fine del libro Phil Jackson si staglia come unico concorrente di Jordan al titolo di eroe della storia (perchè comunque, con tutti i difetti doviziosamente descritti, Jordan rimane un eroe positivo della storia). Ed è anche molto più facile leggere e reinterpretare tutto il resto dell'incredibile storia sportiva di Phil Jackson, da Chicago a Los Angeles, da Jordan a Shaq e al “tumultuoso” rapporto con Kobe alla ricerca del dodicesimo(!!!) anello.
Nel libro c'è qualsiasi cosa un'appassionato grave di NBA possa volere: dai racconti dietro le quinte alla storia di tutta la regular season e dei play off, dalle storie di mercato alla descrizione del management e della caccia infinita a Toni Kukoc. Insomma, se siete affascinati dal basket americano, leggete questo libro, se non l'avete già fatto.

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