domenica 23 gennaio 2011

In cerca dell'anello: Nash e le altre trade complicate dell'NBA

Con la collaborazione di Karim Nafea, entriamo nel mondo NBA parlando di come funziona (meglio non c'è bisogno di dirlo), il mercato giocatori là. E per farlo, omaggiamo un grande campione ancora in cerca del suo primo anello, Steve Nash.



Con l’arrivo di Febbraio e l’incombenza della trade deadline, molte squadre che mirano al titolo stanno cercando di sistemare definitivamente i loro roster (o di liberarsi di contratti troppo onerosi in vista dell’imminente, a quanto sembra, lock-out).

Al momento il nome più chiacchierato è stato quello di Carmelo Anthony.
Melo è stato accostato più volte durante la prima parte di stagione ai Knicks, salvo poi cambiare destinazione a causa di un interessamento dei New Jersey Nets, spinti dai soldi del(l’ex) compagno Prokhorov.
Il nome che più ha girato dopo quello di Carmelo è stato quello del playmaker di Phoenix: Steve Nash.

Dopo la finale di Conference dell’anno scorso e la partenza di Amar’e Stoudamire, sperando che sia ancora questo il nome visto che quell’accento cambia posto a cadenza settimanale, i Suns pur con l’aggiunta di Hedo Turkoglu (poi tornato a Orlando con Jason Richardson, in cambio di Vincredible, di Pietrus e di “Lingualunga” Gortat) e di Hakim Warrick non si sono dimostrati all’altezza della stagione precedente.
Al che, Nash, considerato uno dei più forti giocatori a non aver mai vinto un titolo, probabilmente ha visto svanire del tutto le residue (minime) possibilità.
Tutto ciò ha portato a far girare molte voci secondo le quali il canadese/inglese/sudafricano (fate voi) sarebbe stato al centro dell’interesse di vari team, tra i quali Miami.
Nonostante tutto il due volte MVP ha negato strenuamente la possibilità di lasciare Phoenix a breve.

Se dovesse scegliere altrimenti accettando, contestualmente con il volere della società, le presunte offerte non sarebbe il primo a cambiare in cerca dell’elusivo anello di campione NBA.

Per la serie “Cose che loro fanno meglio di noi” c’è la gestione dei contratti e degli “scambi”.
Infatti la grande differenza tra il “mercato” d’oltreoceano, senza addentrarsi nella fin troppo complessa gestione salariale della lega, ed il “nostro” sta nel fatto che l’Abramovic, il Florentino Perez o lo sceicco in vena di spendere non possono comprare a piacimento i giocatori.
Mentre in Europa ci sono delle finestre di mercato prestabilite nelle quali si può agire in assoluta libertà (più o meno) in America i movimenti di giocatori posso essere effettuati per tutta la stagione fino al momento (Febbraio per l’appunto) in cui gli scambi non possono più essere effettuati.
Si parla di scambi perché un giocatore, a meno che non sia già scaduto il suo contratto, non può essere acquisito semplicemente offrendogli un ingaggio più alto.
Per poter raggiungere l’obiettivo si dovrà offrire alla franchigia che possiede il giocatore uno o più giocatori che abbiano un tipo di contratto paragonabile/i a quello del primo giocatore.
Tutto questo avviene perché i contratti sono regolati dall’NBA tramite il salary cap, il monte salari, cioè una cifra che non deve essere superata (superarla comporta l’entrata in azione della luxury tax, la tassa di lusso per chi gioca a Monopoly). Questo numero viene calcolato in base alla percentuale delle entrate delle squadre che compongono la lega e ad altri fattori che hanno il solo scopo di rendere l’operazione complicata.
Alla fine del contratto con una franchigia un giocatore diventa un free agent; a questo punto la franchigia interessata se ha il necessario spazio salariale può fare un’offerta al giocatore senza dover offrire una contropartita alla società.
Questa tediosa spiegazione, lo so e me ne scuso, è necessaria per capire sia il diverso funzionamento del mercato nella mentalità a stelle e strisce sia le difficoltà che si pongono nell’effettuare uno scambio (caso limite i Knicks, che hanno praticamente buttato via cinque stagione per creare spazio salariale al fine di acquisire Lebron James, cosa che poi non è avvenuta).

Ritornando al discorso iniziale Steve sarebbe solo l’ultimo caso di campioni che hanno deciso di cambiare squadra per vincere il titolo.
La stessa cosa, direte voi, succede (più o meno ed in maniera distorta) in Europa: l’ottimo giocatore lascia la squadra di secondo piano per cercare gloria.
Nell’NBA il concetto di squadra provinciale non esiste: esistono i grandi ed i piccoli mercati, non raramente i giocatori scelgono una città invece che un’altra per via dell’ambiente, della visibilità e della vita notturna che offre.
In ogni caso il fatto che LeBron, Bosh e D-Wade abbiano deciso di unire i loro “talenti a South Beach” (cit) è un ottimo esempio di questa ipotesi; la riunione dei Big Three di Boston con l’aggiunta di Ray Allen e Kevin Garnett a Paul Pierce ne è un altro, anche se quella squadra era (ed è) fatta per vincere subito e per un limitato periodo di anni, a differenza della Miami dei Three Amigos che, anche se meno adatti a giocare l’uno con l’altro, sono più futuribili.

Ciò che invece è totalmente diverso è che la Superstar NBA ormai a fine carriera spesso sceglie di fare diciamo il panchinaro di lusso, ciò che viene chiamato giocatore di ruolo, per una delle contendenti al titolo.
In Italia non vedremo mai un giocatore di spicco, soprattutto se a fine carriera, cambiare squadra per rimanere in panchina al fine di assicurare “minuti di qualità” all’allenatore.
Alcune Superstar a fine carriera come Shaq O’Neal, Jason Kidd, Antonio McDyess, Rasheed Wallace (che potrebbe momentaneamente sospendere il ritiro per tornare a Boston in vista dei playoff) o per quanto riguarda quelle del passato Karl malone e Gary Payton a Los Angeles, Charles Barkley a Houston dopo la sconfitta in finale con Chicago, Wilt Chamberlain (oooooh! di ammirazione) sempre a Los Angeles dopo il titolo con i Philadelphia Warriors o Bill Walton ai Celtics hanno scelto questa via ed anche se non hanno avuto o non avranno successo potremo sicuramente credergli se dovessero un giorno dire che non l’hanno fatto per i soldi, il che al giorno d’oggi non è cosa da poco.

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